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Serial Killer - Edmund Emil Kemper III

Nome Completo: Edmund Emil Kemper III
Soprannome:
Nato il:
18/12 1948 - Morto il: in vita
Vittime Accertate: 10
Vittime Ferite: 8

Ed Kemper
Video

MODUS OPERANDI: Si finge paladino degli autostoppisti ed esibisce un adesivo per fingersi membro della comunità universitaria, studia bene zone delle stade statali per sferrare l’attacco, accoltella, strangola, spara, decapita, smembra le vittime, le mangia, usa violenza sessuale sui cadaveri....

Biografia Serial Killer: Edmund Emil Kemper III

Biografia tratta da: “www.latelanera.com" di Emiliano Maiolo

Pag. 5 - La prigionia, i colloqui, la "fama"
A Douglas e Ressler confessa con contrizione pure il suo problematico rapporto con l’altro sesso. Alla domanda: «Cosa pensi quando vedi una bella ragazza che cammina per la strada?», risponde con estrema naturalezza: «Una parte di me vorrebbe parlarle, chiederle un appuntamento. Un’altra parte di me invece pensa “Chissà come starebbe la sua testa in cima a un palo!”» In definitiva, afferma, non credeva di poter piacere alle ragazze, si sentiva inadeguato e inevitabilmente destinato a un rifiuto. Era soltanto nelle sue
fantasie volente che poteva possederle, e possederle, in fin dei conti, significava appropriarsi della loro vita. Pure al processo aveva detto: «Vive, erano lontane, distaccate. Io cercavo di stabilire un rapporto con loro. Quando le uccidevo, pensavo soltanto che sarebbero diventate mie.»

Ai due agenti spiegherà poi con più chiarezza: «Decapitarle era l'unico modo che avevo per amarle. Solamente dopo averle de-personalizzate riuscivo a concepirle come un piacere. Per quanto riguarda il cibarmi dei corpi e per quanto può sembrare freddo dirlo così, era l'unico modo che avevo per rendere quelle ragazze mie per sempre. Penso che sia stato così anche per mia madre, in un certo senso. Ovviamente era un'attività che mi dava piacere anche il sezionare, la decapitazione in particolare era piacevole, il suono POP che ha la testa quando si stacca dal corpo, quello mi faceva impazzire...»

Parole raccapriccianti le sue, contrapposte ad attimi di lucido dispiacere. Un giorno, mentre è a colloquio con Ressler, gli fa notare come siano soli nella cella. «Non c’è nessuno, se volessi potrei stritolarti con una mano sola.» L’agente, spaventato, la mette sullo scherzo. A fine intervista, Ed gli dirà con amarezza: «Lo sai che avrei potuto farti del male, a volte ho dei momenti in cui non riesco a controllarmi. Avete fatto bene a rinchiudermi, non lasciatemi uscire mai più.»

La fine

Oggi Kemper è un detenuto modello. La sua storia dunque si conclude senza colpi di scena, ma piuttosto con un triste interrogativo. Cosa sarebbe accaduto se Ed fosse nato in una famiglia diversa? Avrebbe agito come ha fatto, se avesse conosciuto l’amore della madre, invece che la violenza e l’umiliazione? Purtroppo, non ci è dato di saperlo, possiamo soltanto inorridire pensando ai suoi efferati delitti. John Douglas, però, ha sempre raccomandato ai suoi collaboratori: «Se vogliamo capire l’artista, guardiamone l’opera». E una cosa è certa: l’opera di Kemper è rossa di sangue, ma nera di dolore.


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